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Presentato a Ponte di Legno “La montagna non dorme” di Dario Morelli

Ponte di Legno, Auditorium Comunale – 11 Agosto 2016 ore 21,00

Presentazione del Libro “LA MONTAGNA NON DORME” di Dario Morelli / Mostra “volti e luoghi della Resistenza Camuna” opere di Edoardo Nonelli

La sala dell’auditorium era piena, al tavolo dei relatori Annalisa Morelli, figlia dell’autore, Emilio Del Bono, Sindaco di Brescia, Rolando Anni, responsabile dell’Archivio storico della resistenza bresciana e dell’età contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, Aurelia Sandrini Sindaco di Ponte di Legno, Ezio Gulberti consigliere provinciale ass. Fiamme Verdi. Ha coordinato i lavori Angelo Moreschi, della Commissione Scuola Fiamme Verdi-ANPI “Ermes Gatti” di Valle Camonica.

Angelo Moreschi: Iniziamo questa serata dedicata alla presentazione della ristampa del libro La montagna non dorme, iniziativa voluta dall’Associazione delle Fiamme Verdi e realizzata con il contributo anche dei comuni dell’alta e della media Valle: un’iniziativa di valore notevole, perché questo volume, stampato nel 1968, era ormai introvabile, quindi è un servizio importante per chi vuole conoscere e approfondire le tematiche della Resistenza in Valle Camonica. Penso sia il momento giusto per far conoscere di più questo importante movimento resistenziale – le Fiamme Verdi –, perché finita la guerra è calato l’oblio sulle vicende della Resistenza. Personalmente, per esempio, ho avuto in dono questo volume nel 1969 quando frequentavo l’Università e mi ricordo che allora, nelle scuole, non si parlava di Resistenza. Non si affrontavano questi temi, probabilmente c’erano delle motivazioni profonde: c’erano state lacerazioni nel tessuto connettivo della società, c’era poi stata anche un po’ di delusione tra coloro che avevano combattuto, perché i valori per i quali avevano combattuto, non sempre erano perseguiti, soprattutto per quanto riguarda l’Uguaglianza ed ancora, in riferimento alla Giustizia. Poi, passando gli anni, ci si è avvicinati a questo argomento anche nella realtà scolastica. La Commissione Scuola delle Fiamme Verdi e dell’ANPI di Valle Camonica, intitolata a un valoroso partigiano, Ermes Gatti, si è introdotta nelle scuole parlando proprio della Resistenza. In questo modo ci si è avvicinati a questa realtà storica e anche nelle scuole ora c’è grande interesse per la Resistenza. Detto questo, lascio immediatamente la parola al Sindaco del comune che ci ospita.

Aurelia Sandrini: Grazie, buonasera a tutti e benvenuti alla serata di presentazione del libro La montagna non dorme di Dario Morelli. Credo sia doveroso, prima di iniziare la serata, ringraziare tutti gli ospiti che ho qui accanto, personaggi molto importanti, che questa sera hanno il compito di illustrarci questo prezioso volume ambientato nei nostri territori e quindi noi abbiamo, insieme ai comuni e gli enti citati dal prof. Moreschi, con la collaborazione della Biblioteca Civica, patrocinato questa iniziativa. Ringrazio innanzitutto Annalisa Morelli, figlia di Dario Morelli, ospite gradito per molti anni di Ponte di Legno, come lo è ora la Signora Annalisa; ringrazio il Sindaco di Brescia che abbiamo disturbato nel mezzo delle sue vacanze estive e che, con molta cordialità, ha voluto essere presente con noi questa sera; il prof. Rolando Anni, ricercatore presso l’Archivio storico della Resistenza bresciana e Angelo Moreschi. Insieme a noi è presente Ezio Gulberti, referente della Associazione Fiamme Verdi per l’alta Valle Camonica. Il Comune, la Biblioteca e gli Enti prima citati, tenevano molto ad una serata come questa nella quale viene presentata la riedizione di questo volume, che parla soprattutto delle azioni delle Fiamme Verdi nei nostri territori. Nel libro sono descritte molto bene le due battaglie che si sono svolte in Mortirolo dove le Fiamme Verdi hanno avuto la meglio sulle formazioni fasciste. Non voglio tediarvi oltre che cedo la parola a chi meglio di me sarà in grado di spiegarvi contenuti di questo libro. Grazie.

Moreschi: Ora sentiamo il saluto di Annalisa Morelli.

Annalisa Morelli: Buonasera, naturalmente mi allineo ai ringraziamenti, soprattutto alle Fiamme Verdi ma, anche al sindaco di Brescia che probabilmente non ne può più di commemorare mio padre. Dario Morelli non era una persona facile: non lo è stato come padre e sicuramente non lo è stato come insegnante. A Brescia, quando incontravo persone della mia età, chiedevo se erano stati allievi di mio padre e il mio terrore era che mi rispondessero: “Sì”. Ma sia io come figlia, sia i suoi allievi, abbiamo constatato che il suo filo conduttore era la Giustizia. Era una persona giusta e se anche durante le lezioni faceva volare qualche libro, lo faceva a fin di bene, perché era una cosa giusta. Questo viene raccontato, lo dice qualcuno che lo sa, che aveva un cuore grande. Rovistando per casa ho trovato, tra le sue carte, giudizi scolastici che nemmeno sotto tortura svelerò, ma vi assicuro che erano fantastici! Effettivamente, leggere i giudizi degli esami di maturità di persone ormai grandi e che, magari, avevano assunto alte responsabilità, vi assicuro che è stato piacevole. I genitori, normalmente, si scoprono quando è troppo tardi, quando non ci sono più: restano spesso tante domande senza risposte. Io lascio il racconto della vita di storico e di ricercatore a chi ha vissuto con lui queste esperienze. Probabilmente Rolando Anni che – abbiamo scoperto io e i miei fratelli – lo conosce più di noi. Siamo molto contenti che l’Archivio sia finito all’Università Cattolica, perché l’impressione che si prova vedendo molti giovani frequentarlo è forte: non me lo sarei mai immaginato, e sbagliavo! Probabilmente i giovani sono molto più interessati a questi problemi di quanto noi crediamo; spesso non ce ne rendiamo conto. A noi figli Dario Morelli ha lasciato un grande bisogno di Giustizia, che era la sua nota principale e forse anche quel grado di ribellione che è servito a tutti noi per reagire di fronte ai problemi della vita. È stato un Ribelle e, in fondo, un po’ ribelli lo siamo anche noi. La cosa che mi ha sempre impressionato è che questo libro è stato pubblicato nel 1968, quando noi, tutti e tre, ne combinavano di tutti i colori, non eravamo del tutto ligi ai suoi insegnamenti. Non so se sia stato fatto per coincidenza o se qualcosa sia scattato, forse Rolando ha una risposta, io personalmente non ce l’ho. Chiudo con una nota doverosa su mia madre, che è stata il vero muro portante della nostra famiglia e soprattutto una sua grande alleata prima, durante e dopo. Prima, durante la guerra e durante tutto il periodo del fascismo, sappiamo che le donne sono state fondamentali. Durante la vita, che non è sempre una passeggiata, ci sono momenti molto difficili. E dopo, negli ultimi anni, quando mio padre è stato veramente molto male e quindi ha cominciato ad avere bisogno di persone che pensava di non dover mai disturbare. Mia madre non l’ha mollato nemmeno un secondo; sono stati anni molto difficili, ma pieni di emozioni che non confesso perché fanno parte delle mie cose private. Grazie a tutti.

Moreschi: grazie Annalisa per la toccante testimonianza. Ora la parola al Sindaco di Brescia, Emilio Del Bono, che gode dell’ospitalità dell’alta Valle in quel di Stadolina.

Emilio Del Bono: grazie intanto per l’occasione e per l’invito. In realtà questo libro lo conoscevo già, perché è circolato tanto nella mia famiglia perché il legame di Dario Morelli con mio zio Don Igino Del Bono, citato in questo libro alcune volte, era un legame molto forte. Una delle prime volte che sono venuto a Ponte di Legno è stato per accompagnare mio zio a trovare Dario Morelli e questo mi è rimasto molto impresso perché poi, nel corso del tempo, le ragioni di questo legame sono risultate un po’ più chiare; perché allora pensavo fosse semplicemente un’amicizia, in realtà era un’amicizia che aveva questo vissuto così intenso in comune, un vissuto di cui voglio dire alcune cose. Questo libro – mi piace ricordarlo – innanzitutto è un libro molto impegnativo. È una ricostruzione rigorosa, oserei dire quasi scientifica. Dal punto di vista storico Rolando Anni sarà molto più preciso di me. C’è il rigore dello storico, la ricerca della fonte, la precisione delle date, la precisione delle persone, dei riferimenti, perché non voleva essere un volume genericamente o retoricamente sulla Resistenza, ma ha voluto ricostruire il contesto della storia delle Fiamme Verdi nell’alta Valle Camonica.
Che cosa mi ha colpito di questo volume? Prima questione: il substrato culturale e civile che si percepisce tra le storie che sembra non abbiano connessione, ma che poi ce l’hanno. Quali sono questi tre elementi/eventi cui si fa riferimento? I Partigiani delle Fiamme Verdi sono i figli dello spirito combattivo, della volontà di libertà dei bresciani. Non è un caso che uno dei riferimenti precisi è al Risorgimento, alle Dieci Giornate di Brescia. C’è un richiamo, che mi ha colpito, a questo evento ottocentesco. Che cosa c’entrano le Dieci Giornate di Brescia con la Resistenza? È evidente che nel 1849, in piena stagione risorgimentale, la volontà di libertà, di liberarsi dall’oppressore, in quel caso austriaco, ha un filo conduttore con lo spirito di libertà, la volontà di essere persone libere. Il secondo riferimento: la campagna di Russia. Perché alcune persone protagoniste poi della Resistenza in alta Valle Camonica provengono dall’esperienza della campagna di Russia? Anche questo è un elemento molto interessante, perché viene esplicitato questo collegamento, questo substrato civile e culturale. Ed infine: la cultura della Resistenza, che poi viene richiamata in più di un’occasione e che anch’io voglio sottolineare.
Veniamo al primo punto: quale il substrato culturale e civile di coloro che decisero di andare in montagna e quindi di fare questa scelta di Resistenza? Non era un improvvisato, ma era evidentemente un punto di vista che accomunava certamente tanti resistenti al fascismo durante quel periodo, ma che nel bresciano aveva delle caratteristiche peculiari, che affondavano le loro radici in esperienze di vita tramandate e quindi molto più vive e interessanti. Un’altra considerazione che mi piace ricordare di questo libro è il profondo legame tra la città e la Valle Camonica, che emerge moltissimo, perché le esperienze di vita che s’intrecciano tra coloro che qui fanno la scelta di aderire alle Fiamme Verdi e l’esperienza antifascista della Resistenza in città è stata fortissima, tant’è vero che alcune di quelle persone fanno la scelta di venire qui e non è un caso, perché nella città come in Valle Camonica si identificano i due punti di maggiore Resistenza al fascismo. La città, perché trovava dei luoghi naturali, che qui vengono richiamati: la Pace, cioè l’oratorio dei Padri Filippini della Pace, che sono il riferimento più acuto e forse più intenso di formazione antifascista della borghesia bresciana, il vero luogo seguitissimo – perché tutti i Padri Filippini erano antifascisti: pensate alle personalità che pagarono anche un alto prezzo, come Padre Manziana, Padre Caresana, Padre Olcese, Padre Bevilacqua… ci sono tutti, ovviamente anche mio zio. Tutti i Padri Filippini fanno quella scelta, una scelta fortissima. Non sono antifascisti solo per una visione provinciale e locale, sono antifascisti perché il cuore dei Padri Filippini, l’oratorio della Pace, fu allora uno dei posti più internazionali di Brescia. Essi tenevano rapporto ad esempio con i francesi (la letteratura francese di Maritain come quella di Molière e di molti altri passa attraverso la divulgazione fatta dai Padri di San Filippo Neri). Hanno dei contatti anche con il mondo inglese, perché il Cardinale Neuman era uno dei punti di riferimento, quindi c’è uno substrato culturale molto forte, un filo conduttore di tante biografie che poi faranno la Resistenza in Valle Camonica e sul Mortirolo.
La Pace non è l’unico luogo: c’è palazzo San Paolo dove c’è la sede dell’Azione Cattolica, tendenzialmente antifascista; c’è il Vescovo di allora, mons. Tredici, antifascista. Racconto un episodio che mi è stato riferito da mio zio: allora non si passava da piazza Vittoria, nella quale faceva spicco la statua del Bigio, ma non – come si diceva – per ragioni di pudicizia, perché il Bigio era una statua con delle nudità, bensì perché, la piazza e la statua celebravano l’apoteosi del fascismo, e il Vescovo raccomandava di non transitarvi. Erano molti i luoghi sacri nei quali ci si scambiavano informazioni, ad esempio nelle sagrestie del Duomo. La stessa Chiesa di San Faustino era un luogo di ritrovo per gli antifascisti, quindi la città aveva un suo radicamento, e per questo pagò un prezzo formidabile: ricordiamo appunto Padre Manziana, che finì in campo di concentramento; pensiamo alla fine che hanno fatto Margheriti e Lunardi, fucilati, e ricordiamo don Vender che paga anche lui a caro prezzo la sua libertà di pensiero. Quindi possiamo affermare con certezza che il legame tra la città e la Valle è fortissimo.
La montagna non dorme è un libro che, evidentemente, mi ha anche ricordato mio zio. Ci sono tre casi importanti in cui appare mio zio. La mia è una famiglia antifascista, un altro zio Lorenzo è stato internato per il rifiuto di arruolarsi con la Repubblica di Salò, un altro ancora fece la scelta di andare con l’esercito americano e mio zio don Igino era a Roma con Padre Caresana, nella famosa Chiesa Nuova dove stavano i Padri Filippini, in buona parte bresciani; mio zio fu arrestato incarcerato a “Regina Coeli” perché in una omelia aveva criticato il duce e il regime. Per questo venne arrestato per vilipendio al capo dello Stato e passò alcuni mesi in carcere, dopo di che fu mandato al confino a Biella, ove andò a costruire rapporti con la Resistenza locale. Decisero allora di mandarlo al confino a Ponte di Legno. Mio zio considerò la cosa abbastanza originale. Ebbe modo di dire: «è come mettere un topo nel formaggio, mi mandarono in uno dei luoghi più antifascisti della provincia di Brescia». Dopo l’8 settembre 1943, in città, gli antifascisti furono sistematicamente dispersi, lì c’era un controllo forte, non dobbiamo dimenticare che dopo la realizzazione della Repubblica sociale, Brescia divenne sede anche di Ministeri quindi fu intensificato il controllo da parte dei fascisti e dei nazisti che operarono rastrellamenti con l’intento di ripulire la città da tutti gli elementi antifascisti. In Val Camonica la situazione era diversa anche per la forte solidarietà riscontrata tra la popolazione. Lo pseudonimo di mio zio era Monti ma anche Padre Agapito, con il quale viene menzionato nel libro, quando saliva a celebrare la Santa Messa in Mortirolo.
Il legame tra Dario Morelli, le Fiamme Verdi, il Clero bresciano. Non a caso troviamo moltissimi sacerdoti della Valle in prima fila, mio zio aveva soprattutto rapporti con il Parroco di Ponte di Legno, Don Antonioli. Nel libro vengono citati i molti sacerdoti impegnati anche a rischio della propria vita. Una stranissima vicenda raccontata nella quale furono coinvolti mio zio e Don Antonioli è riferita ad un trasferimento di armi, loro consegnate da un distaccamento di vigili del fuoco, che vengono trasferite in una villa. A me ha fatto una certa impressione pensare a dei sacerdoti che trasferiscono armi da un posto all’altro. Emergono con chiarezza i legami e di contatti con Achille Citroni, capo distaccamento in Mortirolo, con lo stesso Comandante della Divisione Tito Speri delle Fiamme Verdi, Romolo Ragnoli, a sottolineare il legame stretto tra la montagna e la città.
Altro argomento che attira è il concetto di “guerra di popolo”. Mi è sempre piaciuta questa definizione, che si trova anche negli scritti di Pietro Scoppola, il quale sostiene che la Resistenza fu anche guerra di popolo perché aveva trovato forti solidarietà tra la popolazione. L’aiuto si manifestava attraverso una serie di azioni a sostegno delle formazioni partigiane, l’analisi che fa Dario Morelli mette in luce come in Valle Camonica il legame tra la popolazione ed i ribelli che fosse una cosa geneticamente dimostrabile e dimostrata. Questo mi ha colpito moltissimo, perché non è così facile trovare espressioni così nette e ne dà una spiegazione anche sociologica – ma il Prof. Anni ci saprà dire quanto è fondata – e in parte una spiegazione dovuta proprio ad una cultura della popolazione dell’alta Valle. Si citano fatti importanti nei quali in interi paesi si creano le condizioni, un retroterra che facilita le formazioni partigiane. Corteno viene segnalato in modo particolare perché lì ci sono fatti particolarmente pesanti ed il paese paga un prezzo altissimo per questa sua solidarietà con i Partigiani ma, è interessante l’analisi che generalmente si fa, in alta Valle Camonica quasi tutta la popolazione aiuta i Partigiani perché evidentemente si sente solidale con questa battaglia per la libertà. Né dà anche una spiegazione sociologica, la Valle Camonica da sempre zona periferica emarginata, povera dal punto di vista agricolo e che ha sempre dovuto faticare per poter vivere, la fatica è da sempre una condizione quotidiana. La popolazione non ha mai verificato negli occupanti la volontà a cercare di risolvere questi problemi ma ha sempre constatato un atteggiamento di rapina e di negazione della libertà. Anche questa chiave di lettura è interessante per le caratteristiche che mette in luce.
Ultima cosa che mi preme di sottolineare è lo spirito che, pur nella rigorosità dell’analisi, c’è in questo libro. Perché queste persone alla fine scelsero la Resistenza al di là del substrato culturale. C’è un patrimonio di idealità, e quest’idealità è richiamata con forza, si utilizzano tre valori di riferimento: la Libertà che è forse il valore più importante per cui si combatte, l’Equità e la Giustizia che possono apparire sinonimi – in quanto uno dice “una persona equa e giusta” – ma in realtà non è così, l’equità è un po’ più terrena, la giustizia è un afflato che ha anche una dimensione spirituale che va oltre. Dove emerge questo afflato così potente? Nelle parti finali del volume, dove è scritto che il 2 maggio 1945 l’alta Valle si libera, se ne vanno i fascisti e se ne vanno soprattutto i tedeschi e i Ribelli tornano nei paesi tornano alle loro case e alla fine c’è una frase molto bella: «queste persone sono libere. ma si chiedono se hanno il diritto ad esserlo». In definitiva, si chiedono se saranno capaci di far crescere questa sensazione di libertà. È un passaggio molto forte che io interpreto così: sono persone che sono state in montagna, hanno combattuto; molti dei loro compagni sono morti, molti imprigionati e torturati, e quindi si chiedono se avranno la forza di governare questa libertà che hanno conquistato per tutti. Cose che, dette in questi tempi, nei quali noi abbiamo sperimentato la democrazia e la libertà, ci fanno pensare a loro come persone molto importanti. Viene utilizzata anche un’altra espressione: Umiltà, che francamente colpisce, cioè persone che scelgono di ricostruire la propria esperienza democratica con un sentimento di umiltà e di limite delle proprie capacità, quindi una dimensione molto profonda per cui, per me, quella spinta alla giustizia che prima veniva richiamata è una spinta che va ben oltre la dimensione dell’equità. E poi, questo richiamo costante: «non hanno fatto la guerra per odio e non vogliono odiare, hanno fatto una guerra esattamente per le ragioni opposte». E qui riecheggia il nome che si sono voluti dare, “Ribelli per Amore”. Questo sentimento di giustizia che richiede anche ad un regime militare nelle formazioni: non debbono esserci episodi di furto, di danno verso la popolazione civile, vengono sanzionati puniti loro che commettono dei furti o arrecano danni alla popolazione. Coltivano dunque un sentimento di giustizia profondo che non accetta che la guerra disumanizzi, distrugga quel patrimonio valoriale e umano, di cui loro si sentono portatori, quando ci sarà la liberazione e questo è un nocciolo importante che emerge molto bene nel libro ed è veramente bellissimo.
È un libro da leggere, da rileggere e soprattutto è un monito, un fortissimo monito sull’oggi perché fa vedere che cosa è costato ricostruire la condizione della libertà, cioè quali sacrifici, quali scie di sangue, quali ferite profonde sono rimaste in queste persone negli anni, nei decenni dopo. Questo monito soprattutto valido in questi tempi nei quali si dà per scontata la libertà e la democrazia, non capendo che siamo tra i pochi angoli del pianeta nel quale la libertà e la democrazia ci sono, con tutti i loro limiti e tutte le loro inadeguatezze. Probabilmente questa è anche la ragione per cui utilizzare bene questa libertà, come emerge da questo libro, è un dovere altissimo. È un libro non solo voluminoso in termini quantitativi per numero di pagine, è molto pesante dal punto di vista dell’eredità che trasferisce al lettore, anche quello più distratto, perché alla fine quando capisci cosa c’è dentro, la densità di umanità, degli avvenimenti storici, la straordinarietà di quelle giornate, ti costringe a misurare la tua vita, i comportamenti tuoi, con la grandezza di queste persone che ci hanno segnato il cammino e lo hanno illuminato e hanno permesso a noi di essere qui questa sera senza il terrore che avevano loro ogni volta che s’incontravano per strada, o in una sala, o in una canonica, quindi ringrazio le Fiamme Verdi, la casa editrice la Morcelliana che hanno provveduto alla ristampa anastatica di questo prezioso e, fino ad ora, introvabile volume. Grazie.

Angelo Moreschi, grazie a Emilio Del Bono, ed ora la parola a Rolando Anni, responsabile dell’Archivio storico della resistenza bresciana e dell’età contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia.

Rolando Anni, grazie a tutti, ho sentito molte suggestioni nelle parole che sono state dette finora, alcune le riprenderò, altre le lascio alla vostra meditazione. Non uso per caso questa parola “meditazione”, perché è il caso davvero di riflettere su questo libro. Farò un po’ il professore, e mi dispiace, ma questo è il mio compito. Entrerò più nel merito di alcune questioni, tra le quali quella del rapporto con la popolazione che anticipo, è una cosa molto complessa, ma è uno dei temi fondamentali di questo libro, non solo di questo libro ma in generale della Resistenza.
Alcune premesse sull’impostazione storiografica, in secondo luogo l’analisi di alcuni temi che estraggo da questo voluminoso volume, infine alcune brevissime conclusioni.
Innanzitutto, devo confessare una certa esitazione, che non è dovuta al dover presentare il libro di Dario Morelli e proporre alcune riflessioni su questo libro, quanto al dover parlare di lui, di Dario; mi permetto ora di chiamarlo col suo nome, non avrei mai osato quando lo conoscevo. Sono stato – mi pare dal 1976 – a lavorare con lui e naturalmente molto spesso avevo bisogno di chiamarlo, di interpellarlo: ma per me è stato sempre il Professore. Io credo – e spiego quest’esitazione – che per nulla avrebbe accettato una qualsiasi forma di celebrazione, e questa sera non la farò. Nessuna celebrazione, ma uno sguardo a quello che ha fatto, è quello che avrebbe desiderato. Questa sua ritrosia, il non porsi mai al centro dell’attenzione, derivava dal fatto che era rimasto un uomo della Resistenza. La Resistenza mette il pronome “io” in secondo piano, mette in primo piano il “noi”; in qualche modo Resistenza significa collettività. Contava davvero molto l’individuo, ma mai da solo, sempre insieme agli altri. Mi limiterò dunque, in consonanza col suo modo di fare storia, di vivere, di pensare, di dedicare uno spazio breve questo modo di vivere e di pensare. Utilizzo solo quattro termini.

Rigore. L’ho conosciuto come storico, come lavorava con i documenti, con un rigore davvero al limite della durezza, innanzitutto nei confronti di se stesso e poi anche con gli altri, accompagnato dalla razionalità che qui, credo, sia stata alla base dei suoi studi scientifici. Una razionalità che si ricava nello scrupolo delle sue ricerche storiche, tanto che preferiva non dire nulla piuttosto che azzardare delle ipotesi non sufficientemente basate sui documenti o sulle testimonianze: questo è un grande insegnamento che mi ha dato.

Memoria. Della memoria, sui documenti e vicende della Resistenza, è stato il custode. Forse la sua opera più bella, a prescindere dai libri e dagli scritti lasciati, è stato l’allora Istituto Storico della Resistenza Bresciana. Ora ha cambiato nome, ma di poco, diventando Archivio Storico della resistenza bresciana e dell’età contemporanea, al quale ha davvero dedicato tutta la sua esistenza, lavorando però in modo tale che da una massa di documenti è nato un archivio, non solo un insieme di faldoni, di buste, di fascicoli, ma un luogo nel quale la memoria può essere non solo conservata ma anche studiata e tramandata, altrimenti non resta nulla quindi un luogo ideale piuttosto che una produzione di libri.

Il terzo termine è Storia, un termine davvero impegnativo. È quella che ha cercato di costruire con la coscienza critica che gli era davvero propria. Da storico ha scritto uno dei più bei libri, non esito a dirlo, della Resistenza bresciana, ma non solo bresciana: La Resistenza in carcere, di Don Giacomo Vender e di altri, del 1981. Da questo libro, che raccoglie le lettere e i biglietti usciti con grande pericolo e clandestinamente dal carcere, si conosce davvero la moralità della Resistenza, dalle parole che si leggono in questi biglietti. Ed è l’unico libro, io penso (tranne forse nella conclusione de La montagna non dorme), in cui Morelli parla di sé, credo per la prima e l’ultima volta, quando descrive le violenze e la dura vita del carcere che ha provato e di cui non ha voluto mai rivelare niente. Io gli ho chiesto più volte di registrare; me ne ha parlato indirettamente, quando è arrivato al punto di come era stato veramente in carcere, mi diceva «tu puoi immaginare», ma in realtà io non ero assolutamente capace di immaginare. Ma c’è un brano, breve, in cui parla di tutto quello che succedeva in carcere, e parla di sé anche se è riferito ad altri, anche se usa, ancora una volta, l’impersonale. Mi permetto di leggere questa breve citazione:

L’aspettativa dell’interrogatorio, l’attesa di quello che avverrà, diventa addirittura paralizzante quando vi si uniscono il ricordo della tortura già subita e l’orrore di quello che verrà. L’orrore davanti alla tortura non è soltanto paura, quell’assistere agli atroci preparativi, poi l’essere bendati e legati, quel vedersi e sentirsi un mortificato oggetto di lacerazioni, un corpo su cui vengono usate tecniche malvagie, un nulla nelle mani altrui, tutto questo determina un orrore onnipossente che la mente non sa più giudicare, che sconvolge corpo e spirito fino a renderli un tutto dipendenti da esso. Si vorrebbe scivolare nell’incoscienza, si vorrebbe morire. Ci si propone di non sentire insulti e il dolore, di sopportare tutto, anche l’insopportabile menomazioni che le sevizie recano all’organismo, alla fine ci si ritrova come svuotati, privi di pensiero con la coscienza baluginante in un mare di buio.

Ecco queste sono le parole che senz’altro riferisce a sé stesso.

Infine l’ultimo termine: Libero. Libertà non è una parola astratta, ma un termine concreto. Libero, dunque, come è stato scritto, già diffidente nei confronti del potere sempre e irremovibile nei confronti di ciò che riteneva essenziale ed un valore assoluto. Era un uomo contrario ad ogni compromesso e, proprio perché libero, era aperto alla gratuità. Questo aspetto forse, non l’hanno conosciuto in molti, all’aiuto alla ricerca storica, ed io lo posso dire perché è stato il mio Maestro, lo posso dire perché mi ha proprio insegnato il rigore della ricerca storica che non garantisce mai, contrariamente a quello che si può pensare – perché la storia è scienza – non garantisce mai il raggiungimento della verità, ma soltanto uno sforzo assoluto e scrupoloso nell’avvicinarsi alla possibile verità.

Secondo momento. l’analisi del testo. La decisione di ristampare La montagna non Dorme, che è uscito nel 1968 – e magari cercheremo di capire perché nel ’68 – credo costituisca una sorta di scommessa. In primo luogo una scommessa di valore scientifico: stampare un libro dopo cinquant’anni, che sono un tempo lunghissimo per la ricerca storica, nonostante questa non stia mai ferma, procede, è sempre una ricerca storica revisionista, appunto ripete posizioni, valutazioni, anche quelle consolidate, sulla base di documentazioni e testimonianze che si proiettano sul passato. Allora, da questo punto di vista, nessuna ristampa in sé può essere significativa, non acquista un altro senso. Lo diviene invece in questo caso, in altri casi ovviamente se il libro, come questo, ha tracciato, anche se non li ha percorsi completamente, dei nuovi itinerari di ricerca, aprendo delle suggestive prospettive, numerose strade nuove, dagli aspetti economici della Resistenza che qui ci sono, a quelli dei rapporti con gli alleati, dalla storia militare a quella politica e sociale. Questo libro, come tutti i libri, ha bisogno di una lettura critica e credo che Dario ne sarebbe stato contento: uno sguardo critico significa mettere in evidenza ciò che vi è ancora di vivo in un’opera di cinquant’anni fa. Viene pubblicata nel 1968: è chiaro che un lavoro di questa mole ha richiesto molti mesi prima e molti anni di lavoro; però, proprio a partire da quell’anno, la ricerca storica sulla Resistenza italiana si è sviluppata e ha allargato il suo sguardo a realtà che erano state nel passato abbondantemente emarginate. Per fare qualche esempio, le donne, il mondo economico e culturale delle campagne delle montagne, il tema durissimo dell’uso della violenza, il problema della scelta che il giovane allora si poneva sono temi che sono presenti in questo libro, al quale però non si deve chiedere più di quanto poteva dare allora; ma qui si deve guardare come a un classico, un classico che ci pone – ed è capace ancora di porsi – delle domande, non ci dà risposte precostituite, ferme, certe, assolute. Ci suggerisce nuove strade da percorrere, come cercherò di dimostrare. In un libro così ampio, più di 500 pagine fittissime di dati, di riferimenti, di narrazioni, è difficile: io vi proporrò alcune riflessioni su tre temi che, secondo me, sono importanti, anche se non sono gli unici. Il primo è riferito al rapporto tra i partigiani e la popolazione, il secondo è il rapporto con gli alleati e, nello specifico, con le Fiamme Verdi non solo della Val Camonica ma delle tre valli bresciane, e poi le complesse vicende del Mortirolo. Di quest’ultimo tema si parla abbondantemente nella seconda parte del volume: più della metà del testo è dedicato a questo, e rappresenta una sorta di monografia all’interno del volume. Gli altri temi che ho detto, ed altri ancora, non vengono trattati come monografia ma noi li percorriamo per come emergono.

Il rapporto tra la popolazione e i partigiani. Ci sono due visioni che vengono proposte, in qualche modo contrastanti: da un lato l’immagine di un popolo tutto schierato, senza esitazioni o incertezze con la Resistenza, dall’altro una sostanziale indifferenza o estraneità. Sono due posizioni estreme che, voi capite immediatamente, non hanno ragioni per essere sostenute, perché un popolo schierato senza esitazioni e incertezze, tutto dalla parte della Resistenza rischia di mettere in secondo piano la difficoltà, la stanchezza della guerra, le paure, i dolori, che resero molto difficile per la popolazione di essere solidale con i partigiani. Dall’altra parte, l’immagine di un popolo indifferente o per lo meno in secondo piano rispetto alla collaborazione con la Resistenza, non ci spiega come la Resistenza sia potuta vivere: non avrebbe potuto assolutamente vivere senza un sostegno della popolazione ai partigiani. È dunque di grandissima importanza che in questo libro, ed anche in altri, Morelli dica e pensi ai rapporti tra i partigiani e la popolazione, anche per confermare necessariamente (e anche per non smentire) l’appoggio sostanziale della popolazione alla guerra partigiana. Dal libro emergono due elementi che a me sembrano importantissimi: si tratta di un rapporto complesso e di un rapporto dinamico. Rapporto complesso significa che è molto variabile, poco lineare, che non può essere semplicemente definito da spiegazioni valide universalmente per qualsiasi situazione. Rapporto dinamico, invece, perché non acquisito né determinato una volta per tutte, sia nel senso della cooperazione, sia nel senso dell’estraneità. Mi pare un fatto indubitabile, perché è modificato continuamente. L’analisi di alcuni documenti, cioè di quelli più contrastanti, con la tesi della popolazione costantemente favorevole ai partigiani serve a chiarire la complessità delle motivazioni e anche di un rapporto che è difficile e (lo sottolineo) necessariamente mutevole. Questo rapporto, dal punto di vista storiografico, è valutabile se collegato al contesto economico e sociale, non può prescindere da questo. Dario Morelli non prescinde: poteva variare (e variava di fatto) se si passava non solo dalla pianura alla città, o dalla città alla montagna, ma da Valle a Valle, o addirittura da località a località della medesima zona. Occorre dunque maneggiare – e Morelli lo fa con molta cautela – la documentazione disponibile ed evitare un errore di fondo, che è sempre in agguato per chiunque fa storia, che è quello di considerare una situazione valida e illustrativa di ogni altro momento e di ogni altra situazione. Gli atteggiamenti dei montanari e dei contadini cambiarono in riferimento al contesto e alle vicende che vi si svolsero. Non solo cambiarono per questo, ma cambiarono anche secondo i tempi: ad esempio, la possibilità o meno di disporre di finanziamenti, secondo Morelli, ha svolto un ruolo di particolare rilievo nel rapporto con i partigiani. Con fondi a disposizione, un rapporto forte solidale o conflittuale con la popolazione diventava possibile, in questo modo veniva garantita non solo la sopravvivenza delle formazioni, ma soprattutto la loro operatività.
Nella primavera-estate del 1944, con la caduta di Roma, la guerra sembrava avesse fine; ciò portò alla crescita del numero di partigiani, e questa crescita ebbe come effetto immediato quello di rendere assai più difficili gli approvvigionamenti alimentari. Più gente arriva e meno alimenti sono a disposizione, ponendo davvero in modo urgente il problema delle requisizioni. Si requisivano cibi lasciando dei buoni di prelevamento, che sarebbero stati pagati alla fine della guerra: queste richieste andavano aumentando in misura difficilmente quantificabile ma, certamente, molto notevole. Quando necessario, rileva Morelli, le formazioni devono ricorrere a requisizioni di cibi e materiali, ma lo fanno meno che possono, e preferibilmente a carico di arricchiti di guerra; si regolano, in ogni caso, secondo le norme fissate dal Comando Militare di Milano, attraverso appunto i buoni di requisizione. Perché gli atteggiamenti della popolazione possano essere veramente compresi vorrei mettere in particolare rilievo il contesto economico-sociale, vale a dire la povertà dell’economia montana, che era legata ad un’agricoltura spesso di sussistenza, anche se non va dimenticato che i contadini della pianura e della montagna erano, negli anni della guerra, meno sprovveduti di fronte ai problemi alimentari del razionamento imposto dalla guerra rispetto agli abitanti della città. Si trattava di una realtà di isolamento culturale, di arretratezza economica e di una miseria tipica della montagna, acuitasi negli anni di guerra: su questo mondo caratterizzato da questi elementi piombano, nel giro di poche settimane, tra la primavera e l’inizio estate del 1944, molti giovani, in parte forestieri che potevano provocare – e di fatto hanno provocato – rastrellamenti, rappresaglie, incendi, devastazioni, che volevano dire la rovina di una famiglia, di un paese, di un intero gruppo sociale ad opera di fascisti e tedeschi. Così le parole di Gildo Adamini che vengono citate da Morelli:

Dopo le uccisioni e le devastazioni in Val Malga, alla vista di tanto sfacelo, dove noi potevamo trovare il coraggio per ripresentarci davanti a quei poveri contadini impauriti ed al tempo stesso esasperati? Sapevamo, è vero, che ci volevano bene e piuttosto di tradirci affrontavano la morte; ma eravamo noi l’occasione di tanto male, come potevamo ritornare a chiedere loro l’ospitalità?

Non è difficile comprendere l’atteggiamento della popolazione, che era diversificato persino all’interno delle stesse famiglie. A questo proposito si comprende come per i partigiani – appartenessero o meno alla comunità del paese o provenissero da fuori – giocasse un ruolo fondamentale l’essere più o meno solidale il rapporto tra popolazione e formazioni partigiane. Restano comunque aperte due questioni: la prima, rifornire i partigiani seppure dietro pagamento, era in ogni caso pericoloso e compromettente. Perché allora veniva fatto? Sotto la pressione della minaccia di uomini armati o per senso di solidarietà? Oppure semplicemente perché il guadagno che se ne ricavava giustificava ogni rischio? In secondo luogo, quando venivano meno i finanziamenti (che è un fatto tutt’altro che raro, come appare da numerosi commenti), venivano a mancare anche la solidarietà, il cibo, l’aiuto? E se questi non venivano a mancare, chi li forniva e perché? Vedete come le luci e le ombre si alternino in questo rapporto fra partigiani e popolazione.
Un altro tema è la pericolosa presenza delle spie nei paesi, spesso denunciata con un tono molto allarmato. Questa presenza costituisce un problema di grande rilievo, è un elemento rivelatore, una sorta di segnale sintomatico. Se tra la popolazione si nascondevano ed agivano delatori, questo poteva essere un elemento che provocava denunce, rastrellamenti e arresti; il rapporto fra popolazione e partigiani poteva essere fortemente incrinato. Ci sono diversi studi su questa realtà. Io credo che le spie fossero presenti anche nelle piccole comunità, anzi: erano riuscite in qualche caso ad infiltrarsi anche in qualche gruppo partigiano. Tuttavia, è questa l’immagine che esce dal libro. Si trattò di una situazione che coinvolse pochi individui, che provocarono anche gravi danni e la cui pericolosità fu notevole, che rappresentavano però un’irrilevante percentuale della popolazione e che costituirono presenze fisiologiche, che spesso erano conosciute e come tali divenivano in qualche modo meno pericolose.

Secondo grande tema – poco studiato perché adesso si può trovare la documentazione relativa negli archivi di Washington – è il rapporto fra Resistenza e Anglo-Americani. È molto importante e Dario Morelli lo studia molto a lungo; secondo me è uno dei primi che lo studia così a lungo. Si tratta di rapporti complessi, non c’è una verità precostituita, c’è una varietà di situazioni di cui bisogna tener conto, nell’idea di mettere sul piatto tutto quello che si conosce. Quindi Morelli prende atto di questa serie di fattori, indica non soltanto quelli locali ma li inserisce in un quadro più ampio, non solo nazionale, e ne fornisce un’analisi molto articolata.
Innanzitutto mette in rilievo il ritardo con cui la Resistenza nasce in Italia: nel 1943, quando negli altri paesi europei è iniziata nel ’39 o nel ’40. È nata quando la vittoria degli alleati era in qualche modo ormai sicura. Poi, il fatto che gli interessi britannici erano molto legati all’area del Mediterraneo, ma il movimento di liberazione italiano era visto come di secondaria importanza rispetto agli altri, come quello greco o balcanico. Altro elemento che influisce sui rapporti è il timore che tutto il movimento partigiano italiano fosse egemonizzato dal Partito Comunista. E poi ancora (sono tutte osservazioni che fa Dario Morelli) che fosse un movimento sostanzialmente elitario, cioè che non trovasse appoggi tra la popolazione, per di più limitato all’estremo nord della Penisola. A queste valutazioni Morelli aggiunge la difficoltà – degli inglesi, in primo luogo, ma anche degli americani – a comprendere la complessità delle articolazioni delle componenti politiche e sociali della Resistenza italiana. Per loro è un mondo sconosciuto, mancante di un comando unificato cui fare riferimento, che in effetti venne costituito molto tardi. Infine, la durata più lunga della guerra: tutti pensavano che fosse cosa fatta dopo la liberazione di Roma, ma non fu così. A questo dobbiamo aggiungere l’alleggerimento dell’impegno dell’esercito americano, impegnato dal giugno 1944 con lo sbarco in Normandia, Gran parte dei rapporti, quindi, viene tenuto con gli inglesi.
Le organizzazioni, dice Morelli, sono sostanzialmente due: lo Special Force inglese e l’americano OSS. Qui Dario Morelli ricostruisce il cammino che viene fatto: difficile, complicato, complesso, che viene instaurato prima con gli inglesi e in parte con gli americani, attraverso un’organizzazione incredibile che si avvaleva di staffette, uomini e donne, di persone, un’organizzazione che non è mai stata eliminata durante tutta la guerra partigiana, costituita a partire dall’ottobre del 1943. C’è da dire che l’appoggio ai gruppi di Resistenza da parte britannica era, per così dire, un aspetto secondario e veniva dato quando corrispondeva agli obiettivi militari inglesi. D’altra parte, i britannici erano diffidenti rispetto alla guerriglia: preferivano aiutare l’esercito greco o quello jugoslavo, nei rapporti con i quali tutti i compiti erano ben definiti, dove tutto dipendeva dall’Inghilterra. Gli Stati Uniti tenevano contatti con la Resistenza italiana ma erano più legati al reperimento di notizie che potevano servire per l’avanzata che ormai aveva raggiunto l’Italia centrale.
Il collegamento era stato costituito dall’ottobre 1943 da André Petitpierre, che costituisce un’organizzazione di cui faceva parte anche Aldo Gamba; sono i due nomi più importanti che compaiono nel libro, che avevano rapporti con la Svizzera attraverso un centro costituito in Tirano. I rapporti sono tenuti direttamente con McCaffery, che era il responsabile dell’OSS, e attraverso questa via transitavano informazioni, che consentivano poi di lanciare materiali e armi sulle montagne della Valle Camonica e in Mortirolo da un certo momento in poi; informazioni che arrivavano direttamente in Svizzera non con la radio, ma tramite persone, donne in particolare. Questa strada, che aveva dei punti di appoggio, è servita anche, nei primi mesi, per trasferire i prigionieri politici, che si erano liberati dai campi di concentramento, in Svizzera.

Terzo elemento, le battaglie del Mortirolo. Dico battaglie, perché sono due e ricevono lo spazio più importante in questo libro. Il titolo del libro è uno dei messaggi che veniva inviato per radio in attesa di un lancio di armi o materiali per i partigiani. Qui c’è una attenta, scrupolosissima cronaca, si può dire giorno per giorno, delle battaglie del Mortirolo.
Il Mortirolo si trova sopra Monno, a cavallo tra la Valle Camonica e la Valtellina. Le due battaglie si svolgono tra il mese di febbraio e l’inizio del mese di maggio 1945; sono due vere e proprie battaglie, fu per la prima e unica volta nella Resistenza bresciana in cui i ribelli adottarono la tattica della difesa della posizione utilizzando le trincee, che vennero scavate durante la prima guerra mondiale. La prima battaglia durò dal 22 al 27 febbraio e si concluse con la ritirata dei militi della Brigata nera “Tagliamento”; la seconda battaglia iniziò il 10 aprile 1945 e fu uno scontro molto duro, contrassegnato da una serie di attacchi portati sempre dalla “Tagliamento” e da altre Brigate nere e con l’appoggio del fuoco di mortai tedeschi. C’è una ricchissima narrazione e una ricchissima documentazione, non starò adesso a soffermarmi su questo. Mi soffermo però su due momenti: il primo, il 13 aprile, nel pieno della seconda battaglia del Mortirolo, quando pesanti bombardamenti dell’artiglieria tedesca sulle postazioni partigiane provocano, come voi potete immaginare, scoraggiamento tra i ribelli. Molti di loro, vista l’impossibilità di resistere a un attacco così pesante, pensavano che sarebbe stato necessario ritirarsi in una zona più sicura e abbandonare le postazioni troppo esposte. Bastava spostarsi per cercare posizioni di più difendibili, secondo le tattiche della guerriglia: si colpisce e poi ci si allontana. Di fronte a questa situazione, Lionello Levi Sandri, comandante delle Fiamme Verdi in Mortirolo, era invece fortemente convinto che fosse necessario restare. Convocò una riunione dei comandanti di vari distaccamenti, perché una decisione cruciale come quella di restare oppure di abbandonare fosse il risultato non di una imposizione, ma di una riflessione collettiva. Naturalmente, essendo un comandante molto attento, usò tutta la sua influenza per indirizzare la scelta dei suoi compagni di lotta per restare sul posto; però, con molto equilibrio, presenta la situazione in tutte le sue componenti: negative – i partigiani erano assediati, c’era scarsità di cibo, c’era un grande numero di nemici, circa 2000 contro 200, l’artiglieria tedesca colpiva molto pesantemente – ma anche positive – i continui lanci di armi e munizioni da parte degli alleati. Lionello Levi Sandri aveva passato le linee di nascosto per prendere contatto direttamente con gli alleati a Roma e poi era ritornato facendosi paracadutare sul Mortirolo, pur non essendosi mai buttato con un paracadute. Appena rientrato aveva ripreso il comando, quindi aveva dei contatti importanti e fu grazie ai ripetuti lanci di armi e munizioni che la resistenza in Mortirolo fu possibile. Proprio per questo, per le pochissime perdite subite e la convinzione della vicina vittoria degli alleati, il comandante volle che la decisione di rimanere o ritirarsi fosse presa collettivamente.
I comandanti dei vari distaccamenti hanno chiesto ai loro uomini che cosa volevano ed hanno scelto democraticamente di fermarsi in quel luogo. Fu certamente una delle prime scelte democratiche. Un altro elemento che a me sembra fondamentale è la lettera che il comandante Lionello Levi Sandri scrisse a Merico Zuccari, comandante della Legione “Tagliamento”, ormai al termine della guerra. L’ultimo combattimento terminò il 2 maggio a Monno, tra i partigiani scesi dal Mortirolo e le truppe tedesche e fasciste in ritirata; qui vi fu l’ultimo caduto, Bortolo Fioletti (Poldo), 19 anni che scrive alla mamma una delle più belle lettere dei caduti della Resistenza bresciana, pochissimi giorni prima della sua morte. Dicevo, il comandante dei partigiani in Mortirolo ha scritto una lettera che, ritengo, sia bellissima in quanto si pone già nella logica del dopoguerra, superando la logica che l’avversario debba essere abbattuto ad ogni costo, negandogli dignità e umanità; è un appello che fa alla coscienza del comandante della legione Tagliamento, uno dei più violenti comandanti delle divisioni fasciste. Nella lettera, trasmessa attraverso un sacerdote, vi era una richiesta che guardava al futuro, tanto più significativa in un momento di scontro proprio perché rivolto a questo comandante così violento. Scriveva Levi rivolto allo Zuccari:

Il vostro passato di soldato è fuori discussione, sebbene purtroppo la vostra attività bellica si sia diretta in questi ultimi tempi esclusivamente a combattere e uccidere Patrioti italiani. Appunto a voi, che siete un soldato, vogliamo chiedere se non ritenete sia giunto ormai il momento di cessare di spargere sangue italiano, dal quale spargimento solo nuovi motivi di odio potranno sorgere nel cuore del nostro popolo.

La risposta è negativa e allora la nuova intimazione di resa al comandante della Tagliamento è durissima. Ne leggo solo qualche parola:

Avevamo creduto di parlare da soldati italiani ad un soldato italiano con il quale ci dividevano diversità di ideali e di concezioni politiche ma al quale ci dovevano unire ancora i legami derivanti dall’aver tutti appartenuto ad uno stesso esercito, che un tempo aveva combattuto gli stessi nemici della nostra Patria…

Vedete come, nonostante tutto, è questa la nuova mentalità: si cerca di lanciare dei messaggi, dei legami anche a chi è nemico; questa è la moralità della Resistenza, non negare dignità e umanità a nessuno, non soltanto ai propri ma anche ai nemici. Poi:

Ci siamo sbagliati: lei, signor Merico Zuccari, non è più un soldato e nemmeno un italiano. Lei è un volgare e sanguinario capo bandito ai soldi dei nemici d’Italia, eccetera.

Poi prevede una dura e terribile punizione; tra parentesi vi dirò che Zuccari è riuscito a sfuggire, è emigrato in Argentina attraverso alte complicità e, pur essendo stato condannato come criminale di guerra, fu graziato con l’amnistia frutto di una legge del governo di unità nazionale, è rientrato in Italia, al suo paese, dove è morto tranquillamente nel suo letto in età avanzata.

Concludo velocemente con tre brevissime considerazioni.
Questo è un libro, come si è detto, a cui bisogna guardare come a un classico; ancora oggi sollecita ricerche di nuove strade da percorrere, di nuove analisi e di nuove interpretazioni, della Resistenza in generale e di quella bresciana e camuna in particolare. Questo però non garantisce affatto l’immunità da errori e imprecisioni: come sia facile commetterli lo sa bene chi fa il mestiere di storico, la fallibilità è connessa al lavoro stesso.
Secondo, la storia dell’Italia partigiana non può essere scritta senza uno strettissimo collegamento con i documenti scritti e orali; a questi nel libro viene dato grande spazio, senza di essi non è possibile ricostruire nulla. Ma non si può scrivere senza una profonda riflessione su questi temi e qui c’è una profonda riflessione.
Mi permetto di concludere – e questa è la terza considerazione – con le parole con cui Dario Morelli conclude la sua opera:

I 20 mesi di guerra partigiana, il solleone dell’estate, il gelo dell’inverno, danno oggi un senso al domani. La vita ha ora un senso, e glielo hanno dato i compagni morti; ora si può dire “il bene ha la vita per sé”. Ora può anche venire la felicità nella casa e nel lavoro dell’uomo: ora che la libertà è giunta con la semplicità medesima d’un fatto naturale. Ma loro, i protagonisti, sono tutti impacciati, come accecati nella luce. L’hanno pagata un duro prezzo, e tuttavia gli sembra immeritata, la vita che hanno ancora da vivere. Eppure sono liberi. Come tutti.

Vorrei sottolineare questo: come tutti, sono liberi loro e tutti gli altri, nemici e amici. La libertà è un dono che è arrivato a tutti.
Sono parole scritte a poco più di vent’anni della conclusione della guerra, nel 1968, nelle quali io credo che Dario, senza illusioni e neppure senza delusioni, si pone di fronte ad un’esperienza che per lui e per altri suoi compagni è stata di capitale importanza; e mi sembra che proprio con queste parole lasci a noi, che siamo i figli o anche i nipoti, la risposta. Se la felicità è una vita piena di significat,o sia alla fine venuta per tutti noi. Grazie.

Moreschi: grazie a Rolando ed ora un saluto da parte di Ezio Gulberti.

Ezio Gulberti: prima di passare ai ringraziamenti, voglio a nome dell’Associazione Fiamme Verdi spiegare come e perché siamo giunti alla ristampa del volume La montagna non dorme. Per i festeggiamenti per il 70º anniversario della liberazione, le Fiamme Verdi hanno sentito il dovere di procedere a fissare tre punti importanti, tra cui la ristampa della serie completa de «Il ribelle», che è la raccolta della stampa clandestina fatta nel periodo resistenziale. Abbiamo portato a termine il restauro del Luogo del ricordo nel sito della ex polveriera di Sonico e abbiamo sentito fortemente il dovere di procedere alla ristampa di questo volume che, ormai da anni, era irreperibile nelle librerie e nelle biblioteche lombarde. Abbiamo voluto, principalmente, mettere a disposizione delle scolaresche (bresciane e non) un supporto didattico per gli insegnanti, per far sì che portassero a conoscenza gli eventi della Resistenza bresciana legata alle Fiamme Verdi nelle scuole. Ma c’è anche una motivazione personale, che mi riguarda da vicino: Dario Morelli dedica il libro alla memoria di suo padre e di Angelo Gulberti (Reno), cugino di mio padre e comandante di un distaccamento in Mortirolo. La mia famiglia ha dato alla Resistenza e alle Fiamme Verdi cinque partigiani e tre staffette: quindi è un onore per me, questa sera, essere qui a ricordare Dario Morelli presentando la ristampa del suo lavoro più importante. Ogni anno, la prima domenica di settembre, le Fiamme Verdi celebrano (sì, celebrano, non commemorano, come diceva Lionello Levi Sandri), le battaglie del Mortirolo e salgono ala chiesetta di San Giacomo, per celebrare una Messa di suffragio dei morti che ci sono stati durante i 20 mesi della Resistenza e quelli caduti nelle battaglie del Mortirolo.
A nome mio e dell’Associazione desidero ringraziare il Sindaco, Aurelia Sandrini, la Biblioteca Comunale di Ponte di Legno, la signora Annalisa Morelli, Emilio Del Bono Sindaco di Brescia, l’amico Rolando Anni e Angelo Moreschi. Un ringraziamento particolare va, infine, all’artista Edoardo Nonelli, autore delle preziose opere esposte all’ingresso del Municipio per la mostra – Volti e Luoghi della Resistenza Camuna – che hanno impreziosito le pubblicazioni: La Resistenza in Valle Camonica di Paolo Franco Comensoli, La terza età della Resistenza di Tullio Clementi e Luigi Mastaglia (realizzato in contemporanea e a supporto del restauro del museo del Ricordo e della Memoria di Sonico), La mia Avventura di Salva Gelfi, a cura di Stefano Sandrinelli e Paolo Franco Comensoli.
Voglio, infine, ringraziare Italo Lazzarini per la sua presenza a questa serata. Suo fratello, Fiamma Verde, è stato barbaramente assassinato a Edolo presso la caserma della GNR con un colpo alla nuca, insieme a Ballardini nell’ottobre del 1944; per coprire il rumore dei colpi i fascisti avevano avviato un automezzo nel piazzale antistante la prigione. I due giovani, dopo la barbara esecuzione, sono stati buttati in una discarica e sono stati recuperati tempo dopo grazie a Don Spiranti, che aveva provveduto alla ricerca dei corpi che non si sapeva dove fossero stati sepolti. Grazie a lui e grazie a tutti per la partecipazione.

Ponte di Legno, 11 Agosto 2016
Registrazione e trascrizione a cura di Luigi Mastaglia

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