Care amiche e cari amici, in occasioni come questo incontro, mi pongo sempre una domanda: perché ci troviamo qui, o meglio qual è il significato profondo del ritrovarci insieme in questo luogo la prima domenica di settembre?
Certamente è per fare memoria di vicende che avvennero 70 anni fa su queste montagne.
Ma fare memoria, se ci pensiamo, non è sufficiente.
La memoria del passato ha dei gravi limiti: se resta chiusa in se stessa è una memoria che ci lega e, per così dire, ci imprigiona, rischiando di far diventare ogni incontro una cerimonia (non che questa lo sia), destinata a terminare e a non tradursi in impegno per tutti gli altri giorni.
Una memoria, dunque, che non sa più guardare al presente e al futuro, mentre la memoria che dobbiamo coltivare è una memoria attiva e liberante: noi siamo eredi infatti di valori, idee e sentimenti soprattutto da vivere e non solo da proclamare, che a noi tutti sono stati trasmessi da giovani che 70 anni fa qui hanno combattuto e qui sono morti.
Non erano eroi e non erano perfetti gli uomini e le donne della Resistenza, né migliori né peggiori di noi, né più intelligenti né meno intelligenti di noi, erano come noi, con le nostre stesse inadeguatezze. Ma allora scelsero, con fatica, incertezze e difficoltà, di essere liberi, desiderando di vivere e non di morire (la retorica fascista della “bella morte” non faceva parte del loro orizzonte umano e culturale).
La libertà per loro, e anche per noi oggi, non era una parola astratta: significava, e significa, garantire dignità ad ogni essere umano, a tutti e non solo ad alcuni, significava la fine di una violenza eretta a sistema, significava ritrovare fiducia nel futuro e negli uomini.
Mi limiterò, dunque, a proporre a me e a tutti voi tre brevi riflessioni, che questi luoghi non possono non suscitare, e una altrettanto breve conclusione.
1. Su queste montagne è avvenuto una vicenda per certi aspetti straordinaria, quando un gruppo di partigiani delle Fiamme Verdi, tra il febbraio e l’aprile del 1945, tenne testa e alla fine sconfisse, in una vera e propria guerra di posizione (caso unico nelle vicende della resistenza italiana), ingenti truppe fasciste della Legione “Tagliamento” appoggiate dall’artiglieria tedesca.
Non interessa qui ricostruire le vicende, pur di rilievo per le forze che vi furono impegnate (2 mila tra fascisti e tedeschi e 250 partigiani) e per i massici e costanti aviorifornimenti degli Alleati che consentirono ai partigiani di combattere e resistere in due battaglie campali.
Interessa, invece, rilevare che se le due battaglie furono importanti dal punto di vista militare, lo furono assai di più da quello politico-ideale.
Il 13 aprile, quando i pesanti bombardamenti dell’artiglieria tedesca sulle postazioni partigiane avevano provocato sfiducia e scoraggiamento, molti ritennero che, vista l’impossibilità di resistere, sarebbe stato necessario ritirarsi in una zona più sicura e abbandonare posizioni troppo esposte e indifendibili.
Di fronte a questa situazione, Lionello Levi, fortemente convinto che fosse invece necessario restare in Mortirolo, convocò una riunione dei comandanti dei vari distaccamenti perché una decisione cruciale, come quella di restare o abbandonare, fosse il risultato non di un’imposizione, ma di una riflessione e di una decisione collettiva attraverso quella che fu una pratica democratica di fondamentale rilievo, anche se usò tutta la sua influenza per indirizzare la scelta dei suoi compagni di lotta.
Con molto equilibrio presentò la situazione in tutte le sue componenti negative (i partigiani assediati, la scarsità di cibo, il grande numero dei nemici, l’uso dell’artiglieria da parte dei tedeschi) e positive (i lanci costanti di armi e munizioni da parte degli Alleati, la resistenza agli attacchi dei fascisti e dei tedeschi che era e sarebbe stata possibile, le scarse perdite subite, la fine ormai vicina della guerra). Volle dunque che resistere o ritirarsi fosse una scelta condivisa da tutti. E all’unanimità fu presa la risoluzione di mantenere le posizioni e di proseguire la battaglia.
2. La seconda riflessione riguarda una questione cruciale, quella dell’uso della violenza.
La guerra partigiana fu una guerra appunto, e dunque letteralmente intrisa di violenza. Tuttavia va fatta una distinzione che con grande chiarezza Laura Bianchini indicò nel “ribelle” del 25 luglio 1944 quando scrisse:
riusciremo ancora a distinguere […] la prepotenza del tiranno dalla rivendicazione dell’insorto; la violenza dell’aggressore dalla difesa dell’aggredito? Perché tutti costoro usano le armi, tutti in un modo o in un altro uccidono, ma gli uni ripongono il loro diritto nella forza e gli altri si servono della forza in difesa del diritto.
Durante gli ultimi giorni della seconda battaglia del Mortirolo ci fu un tentativo di superare o limitare l’uso della violenza, che tuttavia si rivelò impossibile.
Il 26 aprile 1945 Lionello Levi Sandri, chiese con una lettera a Merico Zuccari, comandante della Legione “Tagliamento” , di arrendersi.
Nei termini in cui venne formulata, la richiesta si pose nella prospettiva di un superamento della logica della guerra civile, in cui l’avversario era il nemico assoluto, da abbattere a qualsiasi costo e al quale veniva negata dignità e umanità.
Si trattò di un appello alla coscienza che guardava al futuro, oltre il momento contingente, tanto più significativo perché rivolto ad uno dei più efferati esponenti del fascismo della Rsi.
[..] a voi che siete un soldato, – scriveva- vogliamo chiedere se non ritenete sia giunto ormai il momento di cessare di spargere sangue italiano, dal quale spargimento solo nuovi motivi di odio potranno sorgere nel cuore del nostro popolo.
Di fronte a un netto ma non inaspettato rifiuto del comandante della “Tagliamento”, che minacciava la strage dei partigiani, il principio della mediazione, secondo il quale Levi aveva improntato precedentemente il suo agire, venne meno. Non era infatti possibile alcun compromesso sui principi considerati fondamentali e irrinunciabili. Perciò le parole scritte due giorni dopo, il 28 aprile, nell’ultima comunicazione, come fu definita dallo stesso Cap. Sandro, furono estremamente dure:
[…] Ci siamo sbagliati. Lei, signor Merico Zuccari, non è più un soldato e nemmeno un italiano. Lei è un volgare e sanguinario capo bandito, al soldo dei nemici d’Italia. Cerchi pure di difendere ancora i suoi padroni tedeschi; continui pure a far versare sangue italiano […] Nessun militare della Tagliamento sfuggirà alla punizione che lo attende.
3. Esiste un libro che racconta le vicende resistenziali dell’Alta Valle e soprattutto del Mortirolo con grande scrupolo e ricchezza di documentazione.
Si tratta di un libro di Dario Morelli, ormai un classico della storiografia bresciana, dal bel titolo di “La montagna non dorme” (era uno dei messaggi in codice di Radio Londra per i partigiani camuni), che proprio in questi giorni è ristampato.
Uscito quasi 50 anni fa nel 1968 indicava prospettive interpretative delle vicende della Resistenza camuna, che mantengono tutto il loro valore, al di là dei limiti che ogni ricerca storica ha in sé (chiunque faccia lo storico sa bene che le verità sono più un fine a cui tendere che un traguardo da raggiungere). Lo sapeva bene Morelli che di fronte a vicende sulle quali non era possibile trovare documentazione e sulle quali, quindi, non poteva raggiungere delle ragionevoli certezze, piuttosto che far valere le sue intuizioni o le sue impressioni taceva.
Quel silenzio, però, non significava affatto la rinuncia alla ricerca, ma piuttosto il suo contrario, cioè un impegno ancor maggiore nello studio e nell’indagine, pur nella consapevolezza che questo non poteva garantire il raggiungimento della verità, ma solo la scrupolosità e l’onestà nel tentativo di raggiungerla.
Si tratta di una grande lezione di etica prima ancora che di metodologia storiografica che io sento rivolta in primo luogo a me, ma anche a coloro che ritengono di possedere verità assolute e incontrovertibili.
Conclusioni
1. Nel suo libro uscito quest’anno dal titolo “La Resistenza perfetta” Giovanni De Luna, scrive nelle pagine introduttive Parole che non possono non essere condivise. Oggi, scrive,
[…] non si può nascondere un insopportabile disagio quando su queste imperfezioni si scatena una rabbia demolitoria che non sembra volersi placare; è come se, dagli anni novanta in poi, si sia messa in moto una valanga di fango e detriti inarrestabile, alimentata da una storiografia punteggiata da aneddoti poco edificanti, trame da svelare, verità clamorose da gridare, quasi che addentrarsi nel cuore nero della lotta partigiana sia calarsi con voluttà in un pozzo inesauribile di scandali e inconfessabili misteri.
Come molti altri, ritengo che nella Resistenza, senza dimenticare le diversità e talora i contrasti tra uomini e formazioni, prevalgano gli ideali comuni, quelli che rendono, appunto e in certo qual modo, la resistenza “perfetta”. Sono quegli stessi ideali che Bortolo Fioletti (Poldo), l’ultimo caduto della Resistenza bresciana, il 1° maggio, quando Brescia poteva festeggiare dopo tanti anni la festa dei lavoratori, esprimeva in una lettera alla madre.
Scriveva:
Cara mamma, non piangere per me. Perdonami e pensa se io fossi tra coloro che martirizzano la nostra gente […] Io sono qui per nessun altro scopo che la fede, la giustizia e la libertà, e combatterò sempre per raggiungere il mio ideale […] Presto verremo giù, e vedrai che uomini giusti saremo. Allora si vivrà con la soddisfazione di vivere e non con l’egoismo di oggi.
Con ingenuità e contemporaneamente con grande intensità esponeva alcuni principi che non appartenevano solo a lui, al giovane Poldo, ma, anche se in misura diversa, a tutti.
Emergeva da queste parole soprattutto la speranza, per Poldo la certezza, che il mondo futuro sarebbe stato abitato da uomini giusti.
Noi, a distanza di 70 anni, sappiamo che solo in parte quella speranza si è realizzata, che l’egoismo non è stato sconfitto e che la giustizia è una meta sempre da raggiungere. Ma sappiamo anche che quella speranza non è stata soffocata e che sta in noi realizzarla.
2. Il nome, nella cultura ebraica e in parte anche in quella cristiana, non è solo un elemento indicativo delle persone, ma ne sottolinea e per così dire ne esprime l’essenza.
Vorrei quindi leggere i nomi di coloro che sono caduti in Mortirolo o in collegamento con i partigiani del Mortirolo e, insieme, ricordare per un momento la loro persona, il loro volto, la loro essenza.
A loro che sono morti e a tutti coloro che si impegnarono nella Resistenza in quei venti mesi tutti noi dobbiamo molto.
Giuseppe Algieri, 21 anni
Luigi Calvi, 19 anni
Gregorio Canti, 24 anni
Alessandro Danesi, 20 anni
Charles Douard, 20 anni
Bortolo Fioletti, 19 anni
Mario Gazzoli, 20 anni
Ersilio Manciana, 23 anni
Giovanni Marconi, 22 anni
Vittorio Negri, 30 anni
Giovanni Scilini, 29 anni
Luigi Tosetti, 45 anni
Giovanni Venturini, 29 anni