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Anna Steiner a Breno per la Giornata della Memoria

Anna Steiner
Anna Steiner a Breno

In occasione della Giornata della Memoria 2023, la Commissione Scuola e Cultura “Ermes Gatti” – composta dalle Associazioni ANPI, Fiamme Verdi, ANEI ed Ecomuseo della Resistenza in Mortirolo – ha organizzato due incontri con Anna Steiner, pronipote di Giacomo Matteotti, parlamentare socialista barbaramente assassinato dai fascisti nel 1924 con il placet di Benito Mussolini.

Il primo incontro si è svolto la sera del 24 gennaio presso la Sala Casa della Cultura di Breno, aperto alla partecipazione del pubblico. Il secondo, la mattina del 25, al Cinema Teatro Giardino, durante il quale Anna Steiner ha incontrato 350 studenti del Liceo Golgi.

Gli argomenti trattati hanno riguardato la violenza con la quale Mussolini è salito al potere, le persecuzioni contro gli antifascisti, la soppressione dei partiti, delle associazioni, dei sindacati. Una violenza manifestata fin dall’inizio dell’era fascista e proseguita con le stragi in Libia, le guerre ed i crimini contro le popolazioni in Etiopia, in Spagna, fino all’approvazione delle leggi razziste del 1938, la caccia agli ebrei la deportazione e la loro eliminazione.

La famiglia di Anna Steiner ha sofferto della persecuzione nazifascista, il padre e due cugini sono stati vittime della strage di Meina (sulla sponda piemontese del Lago Maggiore), uno zio è morto in campo di sterminio, i più fortunati sono dovuti espatriare.

* * * * *

Di seguito trascriviamo nel modo più fedele possibile l’appassionante testimonianza di Anna Steiner, che ringraziamo di cuore per la sua disponibilità.

Buonasera a tutti, grazie infinite di questo invito per me prezioso. Voglio subito dire che entrando in quest’aula e vedendo quel quadro di Giacomo Matteotti, mi sono commossa, viene da una fotografia pensavo di mostrarvi non sapendo che l’avrei trovata ingrandita ed incorniciata. Racconterò la mia storia che penso sia un po’ la storia di tutti, penso sia importante proprio perché è la storia di tutti. La prima immagine che vi mostro è proprio la fotografia sotto la quale, una scritta a mano dice – foto di Giacomo Matteotti regalata dalla moglie Velia alla Sorella Fosca – . Fosca era la mia nonna, mamma di mio padre e sorella della moglie di Matteotti. Io ho conosciuto la mia nonna che è mancata quando io avevo 10 anni, la ricordo molto bene e devo dire che aveva un carattere molto mite, disponibile e debbo dire di non avere mai ricevuto da lei un messaggio di odio o vendicativo. Ho capito benissimo che la sua vita era stata più che segnata, massacrata! Perché il cognato che amava molto, marito di sua sorella con la quale era molto vicina, c’erano solo due anni tra di loro, era stato ucciso come voi sapete nel 1924 e tutta la famiglia si era trovata sotto stretto controllo del regime. La nonna poi perse il figlio primogenito, fratello di mio padre, in campo di sterminio perché, mentre mio padre aveva solo 11 anni quando hanno ucciso lo zio Giacomo, suo fratello ne aveva già quasi 16. Quindi aveva capito, più ancora di quanto avesse capito mio padre, che cosa era successo, è diventato, finite le scuole superiori e l’università, un avvocato, esercitando la sua professione per difendere i diritti violati sistematicamente dal regime; scrisse testi contro il regime. A seguito di una delazione (spiata, naturalmente ben pagata), mentre camminava in centro è stato fermato e incarcerato a Fossoli che era un campo italiano di smistamento, da Fossoli a Mauthausen poi ad Ebensee dove morì nel febbraio del 1945.

La nonna quindi, aveva avuto la vita massacrata! Prima dalla morte del cognato e poi da tutto quello che questo aveva comportato e alla fine della guerra quando sperava di riprendere una vita normale, purtroppo non tornò il figlio maggiore.

Diciamo che, io ho respirato nell’aria di famiglia, non tanto la tragedia, che pure nel tempo ho capito di che entità fosse ma, diciamo che ho respirato un’aria, sempre, di grande dignità. Mai di vittimismo e mai di tipo passivo (è successo, mettiamoci una pietra sopra! Ma mai neanche, vendichiamoci!). È successo ma non deve succedere più. Questo è stato un messaggio chiarissimo, fin da quando ero piccola.

Nella foto vedete mio padre vestito tutto di bianco, la nonna come dicevo proveniva da una famiglia cattolica e in quel giorno mio padre faceva la prima comunione. In quel giorno di festa avrebbe dovuto esserci anche lo zio Giacomo che però, non arriva. Per questo mio padre, scelse quella foto e la mise vicina agli appunti che lui aveva scritto per ricordare quegli anni, dove sostanzialmente ricorda proprio quella giornata. Vicino c’è riprodotto in piccolo il disegno di un faccione con scritto abbasso Mussolini gran capo degli assassini, con la firma -Albe 1924-. (il nome Albe è semplicemente l’abbreviazione di Alberto). In famiglia abbiamo sempre usato dei vezzeggiativi per indicare i nomi, mio papà ha mantenuto questo nome anche da adulto nel lavoro che ha svolto di Grafico e Art Director. Questo disegno lo appese nell’atrio di casa, naturalmente venne immediatamente redarguito dal portiere e poi dai genitori che gli hanno spiegato che non poteva assolutamente permettersi di fare disegni di questo tipo e soprattutto di esprimersi in quel modo. Quindi lui, quando è stato, nel 1972 chiamato dall’editore Einaudi per fare una monografia su di sé, aveva detto, se racconto una storia, la storia può servire. Aveva iniziato dicendo -L a mia storia di grafico la devo far iniziare con quel disegno -, che lui chiamava faccione di Mussolini, e scrisse, – quello fu il mio primo cartello stradale -. Poi fece tanti altri manifesti ma quello fu il suo primo cartello.

Nella fotografia che vi mostro, sono raffigurati i funerali di Matteotti. Vediamo questo signore con i baffi: è mio nonno il papà di mio papà, insieme al fratello della nonna Tita Ruffo che fu anche un grande cantante, un baritono e anche lui essendo fratello della moglie di Giacomo Matteotti, dovette espatriare e tutta la sua fortuna come cantante d’opera la fece in America Latina, la sua vita, la sua carriera dovette svilupparla lontano dall’Italia. Il nonno e lo zio insieme ad altri due che si notano meno, molto giovani, ragazzini, sono i rispettivi figli, dietro al nonno c’è mio padre e l’altro è il figlio di Tita Ruffo, portano la bara dell’Onorevole Giacomo Matteotti. È chiaro che quel funerale, tutti i libri di storia lo dicono, fu un funerale molto importante e partecipato. Mussolini inizialmente non voleva restituire il cadavere. In famiglia si diceva che a rivendicare il cadavere, trovato un mese dopo l’assassinio e riconosciuto come quello di Matteotti, fosse andata da Mussolini una delle due sorelle (Nella) di Velia fingendosi la moglie. Questa zia Nella avevo una figlia nata nel 1924, Laura (cugina di mio padre) che è proprio mancata due giorni fa, è stata insignita dell’Ambrogino d’oro, anche lei giovanissima diciottenne decise di passare alla Resistenza, molto coraggiosamente fece la sua parte, la ricordo perché il suo funerale sarà proprio questo 25 gennaio 2023 ed io purtroppo non potrò partecipare perché sono qui con voi. Soltanto un inserto ma ha il suo valore. La sua parte la cugina Laura la fece giovanissima così come la fecero mio padre e suo fratello. Naturalmente dal 1924 all’inizio della Resistenza che data dal settembre 1943 sono passati quasi vent’anni dall’evento del fascismo e i miei genitori, mio padre ha conosciuto mia madre nel 1937, si sposeranno nel marzo del 1938 e nel mese di novembre di quell’anno saranno varate le leggi razziali.

Mia madre sapeva benissimo i rischi che correva la sua famiglia, pur non essendo stata educata con la religione ebraica, il padre non rinunciò mai alla sua religione ma non volle mai imporre la sua religione ebraica alla moglie (mia nonna materna) che era cattolica, per cui decisero di fare un matrimonio civile (una novità alla fine del 1800) ed hanno educato i propri figli (4) alla conoscenza e al rispetto di tutte le religioni per metterli nella condizione di scegliere quando sarebbero stati maggiorenni. Mia madre sapeva bene i rischi che avrebbero corso suo padre, lei e i suoi fratelli perché figli di padre ebreo, anche se, non so se sapete, la discendenza ebraica passa per parte di madre. Quindi, in realtà se fosse stata rispettata non avrebbero avuto conseguenze ma, nella realtà ne hanno avute perché il fratello minore di mia madre iscritto al Politecnico a ingegneria navale era al secondo anno e quando vennero approvate le leggi razziali fu espulso, come tutti gli ebrei che frequentavano le scuole pubbliche di ogni ordine e grado, finì i suoi studi a Londra e poi in Canada, come si diceva allora, oltre oceano. Gli altri suoi fratelli, per sicurezza furono mandati molto presto in giro per il mondo e approdarono in Messico dove formarono famiglia e vissero tutta la vita. Io sono nata lì perché finita la guerra, i miei genitori, hanno giustamente pensato di riunire la famiglia. La nonna era rimasta vedova, non avrebbe mai saputo come era stato ucciso suo marito (nella strage di Meina) e i miei genitori hanno pensato che lei da sola non avrebbe affrontato un viaggio in nave, allora l’aereo era troppo costoso, quindi hanno deciso di accompagnarla a Città del Messico dove vissero per due anni e io sono nata la, tornarono per votare alle prime elezioni libere nel 1948. Questa è la storia iniziale della mia famiglia, quella del periodo più legato al giorno della memoria.

Voglio dirvi che anche dalla mia nonna materna non ho mai avuto nessun messaggio di carattere vendicativo. In casa della mia nonna materna c’era molto di più perché in questa casa, dove le S.S. sono penetrate di notte e hanno prelevato mio nonno e i miei cugini; in questa casa ci sono stati molti passaggi, si trovava in un piccolo paese e quindi tutti si conoscono, in più in quel paese pochi erano i villeggianti e noi eravamo tra quei pochi e quindi, quando andavo in vacanza lì parlando con la nonna e con i bambini del paese che conoscevo tutti, con cui giocavo, poi sono diventati ragazzi e ci passavo parecchio del mio tempo, a volte si arrivava a toccare questo argomento e io capivo che c’era chi ha denunciato il fatto che c’era mio nonno ebreo in quella casa. In paese viveva ancora chi lo aveva fatto, così come c’era ancora chi aveva aiutato. Per esempio mia mamma, quando aveva saputo di questa aggressione delle S.S. in casa, era a Milano, faceva la staffetta tra Milano e l’Ossola. Quando arrivò a Mergozzo da Milano con treno, una signora la fermò e le disse -Lica, non andare a casa…- perché a casa c’erano le S.S. -… fermati da me, io ti tengo in casa, poi dormire anche da me …-, questa signora che pur avendo vissuto molto ora non c’è più, mi raccontava sempre -… Io ho ospitato la tua mamma. Sai che mio marito mi diceva… Ma cosa fai? Guarda che loro possono anche bruciare la nostra casa per questa ospitalità. Io ho risposto a mio marito … Vale di più una persona che la casa … – Chi aveva scelto di aiutare, perché sembrava giusto aiutare, anche perché mio nonno era un uomo giusto, era un villeggiante e per il fatto di essere ebreo non si capiva perché dovesse essere arrestato. Ma nel contempo c’era anche chi aveva denunciato e da questa denuncia aveva tratto dei vantaggi. Mia nonna faceva dei cenni rispetto a chi aveva denunciato, per esempio mi aveva sempre detto – … In quel bar non entrare, perché non si sono comportati bene … – Ma tutto finiva lì. Questo per dire che il messaggio che mi è stato passato, dico io posso essere testimone tutte le volte che mi chiamano come testimone dei testimoni, a questo tipo di racconto; il messaggio che vorrei far passare è che si sceglie sempre da che parte stare, ed è facile scegliere secondo coscienza, certamente può essere difficile se prevalgono gli interessi, a volte interessi meschini, a volte interessi più significativi ma certo contrari ad una coscienza civile, ad una coscienza che capisce cosa è giusto e cosa no.

Mio padre in questa lettera racconta di tutta la famiglia, dei cugini perseguitati, sia della famiglia di mia madre che la sua stessa famiglia. Non voglio leggerla tutta, ma ho voluto portare la lettera come documento e vi voglio dire di una parte di questa lettera dove scrive esplicitamente – … Nel caso …, questa lettera sarà il mio testamento- l’ha poi riprodotta scritta a macchina perché era chiaro già fin da allora che intendeva conservare in un documento storico, quello che era successo.

In questa foto vediamo un piccolo busto di Matteotti che è sempre rimasto in casa, piccolo, un po’ più piccolo di una bottiglietta d’acqua. Su questo busto che è stato sempre sulla libreria in casa, ed anche ora in casa mia, c’è una incisione che dice -questo bustino fu custodito attraverso tante lotte e tanti sacrifici da Roberto Forti … il quale oggi 24 giugno 1939 lo dona ad Albert Steiner perché fedele alla memoria dello zio-, ve l’ho voluto mostrare perché evidentemente, questo per me è stata una testimonianza fuori dalla famiglia che mi ha fatto capire che i ricordi, avuti da mio padre non solo al compimento del mio 21º compleanno erano vissuti come ricordi personali. Questo busto conservato da Roberto Forti che non ho mai conosciuto, credo sia morto molto presto, che aveva aiutato e assistito Velia la moglie di Giacomo Matteotti, in tutte le sue vicende anche di carattere legale che ha dovuto assumere, dopo la morte del marito, anche per proteggere la famiglia anche dal punto di vista del patrimonio, aveva tre figli piccoli, lei era pittrice ma come in tutte le famiglie borghesi non lavorava in modo sistematico. Tutti hanno cercato di aiutare ma era molto difficile. Questo Forti, avvocato ha fiancheggiato la famiglia dal punto di vista legale, rischiando molto e soffrendo molto, tant’è che è morto molto presto. Chiuderei con la foto di questa lapide che a Mergozzo (Comune nella Provincia di Verbano Cusio Ossola) nel piccolo cimitero di questo paese dove i miei genitori hanno fatto insieme la Resistenza, mia madre staffetta, mio padre commissario politico di una brigata Garibaldina. Mio padre durante gli ultimi anni della sua vita, un po’ scherzosamente e un po’ no, ha… se muoio non voglio una lapide con scritto artista, grafico ecc. voglio solo una pietra grezza dove ho fatto la Resistenza in quel territorio, con scritto solo Partigiano- e diceva sempre -perché questa è la cosa più importante che ho fatto nella vita-.

[…]

Un piccolo ricordo di mia madre, mia madre per fortuna ha vissuto molto di più di mio padre e ha dedicato gran parte della sua vita alla memoria, sempre raccontando del lavoro di mio padre come se fosse solo di mio padre, nella realtà hanno lavorato insieme tutta la vita. L’ultimo libro che io ho voluto pubblicare anche come catalogo di una mostra che ho curato a Milano l’ho voluto intitolare-LICALBE- il nome Lica, lo volevo dire perché un nome curioso deriva dal nome ebraico Masal che in italiano sarebbe Matilde Maria, lei all’anagrafe nel 1914, visto che non si potevano dare nomi stranieri in Italia, è Matilde Maria Covo (il cognome originario di mia madre). In realtà i nonni avrebbero voluto chiamarla Masal il cui diminutivo è Masalica – Lica fin da piccola, e così è rimasta Lica. Nel ricordo che ho voluto mettere accanto il direttore editoriale di Einaudi, vedete in alto il simbolo dello struzzo, che volle rimandare al mito dei ricordi di mia madre al Politecnico e parla del gruppo che si riunisce dopo la Resistenza per fare memoria e dice -a tutti noi rappresentava l’Utopia-. Mi piaceva molto questo ricordo, aveva sempre questo pensiero lieve. Utopia è il titolo di una rivista alla quale hanno collaborato, graficamente e non solo, i miei genitori era importantissima. È quella che ha consentito di vincere perché purtroppo il giorno della memoria sembra sempre il ricordo delle vittime. Di fatto, lo è anche! Ma, così secondo me ci offusca il ricordo della vittoria del pensiero libero contro la barbarie del nazifascismo. Con tanta disparità di mezzi hanno vinto i Partigiani. Ha vinto il pensiero libero! E oggi che c’è tanto scetticismo, ci sembra impossibile che possa vincere la Democrazia; perché c’è tanta corruzione, c’è una situazione difficile non solo economicamente, anche socialmente, ma sono comunque situazioni migliori di quelle di allora. Oggi a maggior ragione può vincere pensiero libero. Noi dobbiamo ricordare la vittoria non solo le vittime.

[…]

Un pensiero fatto per il museo al deportato politico e razziale che è a Carpi, dove si dice che appunto, – …la dottrina da cui i campi sono scaturiti è molto semplice perciò molto pericolosa, ogni straniero ed ogni nemico deve essere soppresso ed è straniero chiunque venga sentito come diverso per lingua, religione, aspetto, costume, idea-. Questa dottrina ha portato nel giro di pochi anni a milioni di vittime, è un segno infausto, il segno che quasi parassita del senno umano, accanto al bisogno dell’amore s’annida il segno dell’intolleranza. Questo secondo me è un testo che spiega tutto, perché in effetti ciascuno di noi ha degli istinti, se viene colpito in qualche modo a delle reazioni immediate, è normale, c’è in noi un istinto intollerante, non tolleri quell’offesa e agisci, c’è anche del giusto. Però accanto a questo istinto c’è anche quello delle leggi dell’amore, dell’avvicinarti istintivamente e poi dominare l’uno o l’altro a seconda delle condizioni.

Vi mostro questa fotografia che fa parte di una trentina di fotografie mandate dalle S.S. di stanza a Varsavia, che le hanno fatte e trasmesse a Berlino. Sono fatte dalle SS locali che dovevano rispondere del loro operato ai capi. Quindi per la prima volta o una delle poche volte oltre al dattiloscritto che dovevano sistematicamente mandare relativo al loro lavoro di S.S., documentano quello che hanno fatto e decidono di farlo anche con fotografie. Questa fotografia fa parte di quello che viene chiamato rapporto (?) perché il responsabile di quelle S.S. si chiamava (?) E quindi questa è una di quelle foto, che i miei genitori avevano recuperato in una loro ricerca per documentare quello che era successo nei campi. Da questa foto, mio padre e mia madre decidono di ricavare il dettaglio di quel bambino che viene pubblicato in copertina di un libro del 1960 a 15 anni dalla Liberazione – Pensaci, Uomo! A cura di Pietro Caleffi e Albe Steiner. Feltrinelli Editore. Il bimbo del ghetto è un simbolo di tutti i deboli. – Quel libro viene dedicato: agli indifferenti che pensano che i comportamenti umani siano tutti equivalenti, quando invece è necessario distinguere e scegliere se siamo uomini o no; agli increduli cui bisogna dare la più rigorosa documentazione che li induca a prendere consapevolezza; agli apolitici cui urge far arrivare il messaggio che è solo sulla somma di tante azioni che possono fondarsi le basi di una diversa convivenza umana. A me è sembrata una dedica di tale attualità da colpirmi e quindi ho chiesto a Feltrinelli di ristampare questo libro, è stato ristampato nel 2012 e sono molto contenta, purtroppo è poco diffuso. Il testo è stato scelto da un amico del fratello di mio papà che è sopravvissuto al campo di Mauthausen, aveva conosciuto nel sottocampo di Ebensee mio zio. Le fotografie pubblicate su questo libro sono state recuperate in tutta Europa, sono 186 selezionate tra le centinaia raccolte. Io lo raccomando molto costa solo pochi euro (9,50), però il testo è straordinario, spiega la struttura dei campi in modo molto semplice. È breve di testo ed è soprattutto un libro fotografico. Per rispondere alla domanda impegnativa che mi ha fatto Alessandra, qui c’è una pagina del Corriere della Sera di qualche anno fa dove il bambino del ghetto viene chiamato un’icona sequestrata, dice -l’uso ossessivo e questa immagine- ha stravolto il significato della foto. Il dettaglio scelto dai miei genitori (quell’icona) è stato utilizzato in più occasioni e in più modi, è sempre lui ma, dice uno storico francese -conosciamo questa immagine, conosciamo quel bambino, la fotografia del ghetto di Varsavia è diventata l’icona della Shoah, un oggetto nomade che è entrato nella memoria occidentale per più di sessant’anni- ma com’è nata questa fotografia che è simbolo dell’Olocausto? È ancora in grado di parlarci? O la guardiamo senza più vederla? Io lascio aperta la domanda però ogni volta rispondo, io sono convinta che la scelta di quel bambino, da parte dei miei genitori, senz’altro con il contributo di un ex deportato, sopravvissuto che aveva vissuto sulla sua pelle, è stata una scelta molto difficile, ma voluta perché credo che voglia dire che dobbiamo pensare a quel bambino non tanto come un bambino ebreo ma come un debole, che siano bambini, che siano omosessuali, o Rom, o Sinti, o comunque deboli perché per esempio handicappati. Mentre in copertina in forma simbolica si rappresenta un bambino con le mani alzate è come un richiamo alla riflessione, infatti sopra c’è scritto con molta forza: Pensaci Uomo. Quello è un bambino e tu che sei un uomo pensaci! Secondo me il valore di quest’immagine resta anche se ossessivamente ripetuta, può sembrare superata. Io credo che il suo valore ce l’abbia tuttora. Come vedete, non solo le immagini sono considerate dai miei genitori, qui i miei genitori decidono di inquadrare il guadagno dello sfruttamento dei detenuti nei campi di concentramento effettuato dalle S.S. questo è un documento pubblicato che è stato trovato tra i documenti che sono emersi dalle segreterie dei campi. Perché i campi avevano delle loro segreterie che conteggiava non solo i detenuti ma, in definitiva il guadagno ricavato dal loro sfruttamento e quanto costavano i detenuti e quello che si poteva risparmiare riducendo le razioni del vitto, quanto era il reddito ricavato dalla sottrazione degli effetti personali, quanto costava lo smaltimento del cadavere e altro ancora. Un dettagliato esempio di macabra contabilità della merce umana”. Spero di aver risposto con chiarezza alla domanda postami. Grazie.

A cura di Luigi Mastaglia

 

Alcune immagini degli incontri: