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L’orazione ufficiale di Federico Manzoni a Barbaine, 10 ottobre 2021

Federico Manzoni, oratore ufficiale
Federico Manzoni, oratore ufficiale

Ringrazio anzitutto per l’invito che mi è stato rivolto dagli organizzatori di questa giornata – la Comunità Montana di Valle Sabbia, il Comune di Pertica Alta, le Fiamme Verdi – ad intervenire oggi in questa cerimonia: un grande onore ma ancor più una grande responsabilità.

Siamo in uno di quei luoghi emblematici che Piero Calamandrei nel suo celebre discorso agli studenti milanesi indicava come meta di un pellegrinaggio per conoscere dove è nata la nostra Costituzione.

I 31 cippi che sono alle nostre spalle sono qui a ricordarci gli altrettanti uomini e donne caduti in queste montagne per testimoniare l’anelito alla libertà e il rifiuto radicale della dottrina e della pratica del fascismo e del nazismo.

Su tutti, Emiliano Rinaldini – di cui nel prossimo mese di gennaio ricorreranno i cent’anni dalla nascita – e nel ricordo del quale è qui presente quest’anno anche una delegazione della Famiglia Universitaria, il convitto di studenti nella città di Brescia che a Emi Rinaldini appunto e a Giulio Bevilacqua è stato intitolato.

Una resistenza – come osservava il bresciano Franco Salvi, uno dei più stretti collaboratori e amici di Aldo Moro – che più che un fatto militare è stata un movimento ideale, un moto con un contenuto soprattutto morale e che – aggiungeva – se essa questa non fosse stata, certamente non avrebbe nessun significato celebrarla oggi”.

Se siamo qui, infatti, a ormai oltre 76 anni da quelle vicende, è perché individuiamo nelle biografie di questi caduti, nei loro scritti e nella loro testimonianza, un modello ancor oggi valido, attuale, che val la pena non solo far conoscere alle giovani generazioni ma anche far riscoprire anche al mondo adulto.

Di persone che, per dirla con uno stupendo scritto di don Primo Mazzolari, si sono impegnate senza pretendere che altre si impegnassero e che si sono impegnate senza giudicare, accusare, condannare chi non si impegnava, ma perché, sempre per usare le parole di don Primo, credevano “nell’amore, la sola certezza che non teme confronti, la sola che basta a impegnarci perpetuamente”.

I ribelli per amore, appunto!

Quell’amore, che faceva dire a Pierino, su Il Ribelle del 1° settembre 1944, che “se (troppo presto ancora) oggi non ancora sappiamo liberarci dell’odio di parte e dell’ira di razza di cui ci hanno infettato, che ognuno guardi dentro di sé e coltivi quell’angolino d’amore che non può non essergli rimasto, quel brandello di santo amore lacero e dolorante che ognuno può certo ritrovare in sé stesso”.

Parole queste che suonano quasi inconcepibili per noi oggi, in un’epoca nella quale sembra che a tutte le latitudini traggano nuova linfa i seminatori di odio (amplificati in quest’opera dal potentissimo strumento dei social) che con la violenza verbale spesso alimentano la violenza fisica (come purtroppo abbiamo visto nel gennaio scorso a Capital Hill a Washington o ieri a Roma). Un’epoca in cui sembra farsi strada una concezione dei rapporti improntata più alla legge del taglione e al “fai da te” che non alla giustizia, in cui – senza andare lontani – anche nella nostra Europa sorgono nuovi muri, in cui aumentano le diseguaglianze e diminuiscono (sì, diminuiscono!) i Paesi al mondo nei quali si pratica la democrazia e si rispetta la libertà. O nei quali, la democrazia si svuota, perdendo quelle caratteristiche di sostanza per le quali essa non è semplicemente una mera procedura di espressione di consenso ogni tot anni, ma esige il pluralismo dell’informazione, la separazione dei poteri, il rispetto dei corpi intermedi della società, la libertà religiosa e di espressione…

Potremmo essere tentati dal dire che l’afflato dei ribelli per amore sia ormai del tutto inattuale.

E certo esso è oggi inattuale, ma non perché esso sia inadeguato e superato, come effettivamente tante cose nel corso del cammino dell’umanità si sono rivelate inadeguate o superate, ma perché siamo noi a non essere sufficientemente all’altezza di quello stile.

E’ in questo richiamo alla nostra personale responsabilità, che suonano quantomai attuali le parole di Emiliano Rinaldini, riprodotte in quella splendida pubblicazione che è “Il Sigillo del sangue”, quando ricordava “Non imputiamo ad un capo la colpa di tutto il male che ci sovrasta. Noi tutti siamo responsabili con lui. Se fossimo stati al nostro posto, se nella trincea dello spirito avessimo issato la nostra bandiera, non avremmo ceduto, rinnegato noi stessi. Già da anni abbiamo abdicato e questo crollo è la logica conseguenza di tanto cieco errore. Bisogna ora, prima ancora del crollo finale, che sorgano energie nuove. Occorre gettare (non importa se e come il solco l’accolga) il chicco, con fiducia. Qualche cosa nascerà. Il primo pane d’un età nuova”.

E in questo gesto di gettare il chicco, con fiducia, è molto bello che ormai da diversi anni questa cerimonia sia significativamente impreziosita dalla presenza degli studenti di Idro, la cui scuola per tanti anni conosciuta con l’anonima dizione di Polivalente, ha finalmente assunto la denominazione Giacomo Perlasca, a rinsaldare il legame profondo con la resistenza valsabbina.

Erano ragazzi poco più che maggiorenni quelli che qui ricordiamo! Così come molto giovani erano le staffette che coadiuvavano i ribelli.

Permettetemi qui di rivolgere un pensiero per i tanti testimoni di quella stagione, che in questo ultimo periodo ci hanno lasciato, spesso nell’impossibilità a causa dell’emergenza sanitaria di poter persino far loro visita e di abbracciare i loro cari. E un pensiero particolare, qui a Livemmo, a Carla Leali Baldo.

Ma il gesto di gettare il chicco con fiducia non è solo un richiamo alla nostra personale responsabilità, ma è anche il richiamo a un impegno collettivo, politico – nel senso più alto e nobile del termine, che deve tradursi in concrete iniziative per costruire o ricostruire le condizioni per una convivenza tra i Popoli che sia pacifica, giusta, solidale e sostenibile.

Le drammatiche vicende afghane di agosto (e che, pur se ormai entrate in un cono di relativa ombra, non si sono certo arrestate!), la ancor maggioritaria quota di persone sulla terra che non sono vaccinate perché non hanno accesso al vaccino, giusto per citare due tra le più recenti, evidenti e insopportabili storture del nostro tempo, ci dicono che non è più rinviabile una piena attuazione dell’art. 11 della nostra Costituzione, che non si limita a ripudiare la guerra ma che contempla “le limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” e che “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Pace e giustizia, questo binomio che il Salmo 85 indica come una auspicata endiadi e che la nostra Costituzione repubblicana individua per la costruzione di un ordinamento sovrannazionale, l’unico in grado di affrontare le sfide del nostro tempo con efficacia.

Sottolineo il termine efficacia ricordando quanto oltre trent’anni fa diceva un nostro grande conterraneo, Mino Martinazzoli, affermando che “oggi la tecnica e l’economia tendono a contare di più della politica” e che una delle ragioni di questa situazione risiedeva (e purtroppo a trent’anni di distanza continua a risiedere!) nel fatto “che gli strumenti, le istituzioni, i comandi della politica sono ancora quasi tutti contenuti nell’angustia delle dimensioni nazionali, mentre le competizioni della tecnica e dell’economia si svolgono sempre di più secondo le lunghezze transnazionali”.

Ricostruire il primato della politica sulla tecnica e sull’economia significa in fin dei conti porre le basi di un nuovo umanesimo o, per essere ancora più chiari, ristabilire il primato della persona, con il suo inalienabile portato di diritti inviolabili e al tempo stesso con la responsabilità di quei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, di cui parla mirabilmente l’art. 2 della nostra Costituzione, che io considero dei 139 articoli della nostra Carta costituzionale il più bello e il più esigente.

L’essere oggi in questo luogo non è dunque un semplice evento commemorativo di gesta passate e nemmeno la pur doverosa espressione di un debito di riconoscenza per chi ha sacrificato la propria vita per alti ideali e per donarci democrazia e libertà.

E’ in verità l’occasione per rinnovare un patto con i Ribelli per amore e per ribadire l’impegno a continuare nella costruzione e ricostruzione di una società e una comunità nella quale, per riprendere le parole di Emi Rinaldini, ci impegniamo “con tutte le nostre forze a divenire migliori moralmente, con una sensibilità spirituale più alta, con una competenza professionale più profonda”.

Grazie.